Verbum caro factum est

Dalla prima domenica di Avvento alla messa in die di Natale ho ascoltato cinquanta omelie (prevalentemente online, in diretta o in differita, e in presenza in una delle tante parrocchie romane). 


Antoniazzo Romano, Natività,  Roma,
Galleria Nazionale di Arte Antica di Palazzo Barberini

Oltre al disgusto che mi suscitano in generale questi “discorsi” o le parole di vescovi e preti che dobbiamo ascoltare e che producono ragionamenti senza stile (quindi senza forma oltre che senza contenuto, perché evidentemente non leggono un libro neanche per sbaglio) si vede che ancora l’omelia è un intermezzo in cui pronunciare falsità con cipiglio, per uscire fuori tema e parlare di qualsiasi cosa o sono manciate di minuti, sempre troppi, riempite per diffondere pensierini di autoaiuto, fandonie, vacuità o formalismi vari di cui noi fedeli pazienti proprio non abbiamo bisogno nonostante teniamo a mente quello che il clero sempre ricorda, come un mantra, il “potere ai laici” o i vari insulsi “i laici nella Chiesa”.

Ho voluto fare questo “esperimento” per sondare quanto quello che nella nostra società è un problema enorme che forse, forse, è considerato tale solo da noi impegnati nell'insegnamento che ne abbiamo la percezione ogni giorno in classe, anche nelle chiese è dilagante e omertosamente taciuto. Una visione parziale su cui baso una mia considerazione personale, condivisibile o meno.

Il problema cui mi riferisco è l'impoverimento linguistico che a livello globale affligge il nostro occidente e che si potrebbe riassumere in “se il mio vocabolario è ridotto, lo saranno anche i miei pensieri” e “se non ho le parole per esprimermi non ho neanche pensieri da comunicare”. Non puoi pensare là dove la parola manca.

Cominciamo pensando alla mente come a un giardino all’Italiana, con l’immaginazione che corre a Villa Lante a Bagnaia, a Boboli o ai Giardini Vaticani. Di questo giardino dobbiamo prenderci cura per evitare che le piante secchino e o che quelle infestanti prendano il sopravvento. Ma come per le piante, nella mente bisogna imparare a riconoscere, valutare e selezionare i pensieri che sono alla radice dei nostri stati d’animo e di conseguenza delle nostre decisioni e azioni. Che vuol dire anche conoscere, selezionare e valutare le parole che entrano nella nostra mente, nel caso particolare quelle che non entrano facendo regredire il pensiero, quindi le decisioni e le azioni.

Da dove partiamo? Dal Cratilo di Platone. Per chi tifiamo? Per Cratilo che vede nei nomi la vera essenza delle cose o per Ermogene per il quale il nome è solo una etichetta che si può cambiare a seconda dell’occasione perché non ha niente a che fare con la cosa e che vede l’unica strada percorribile nella etimologia, nel senso della ricerca della verità degli enti? Stiamo dalla parte di Socrate che mette in discussione le due idee e cerca una posizione mediana.  

Senza addentrarci troppo nella questione, i punti che sottolineiamo sono quelli per cui il linguaggio

a.     non è solo uno strumento e che le parole, o una lingua, non sono solo un mezzo, delle etichette intercambiabili, per dire qualcosa nell’immediato ma sono una interpretazione del mondo  o una visione del mondo.

b.     Che il linguaggio, o meglio la lingua che parliamo – per esempio adesso l’italiano che utilizzo per scrivere – è una interpretazione del mondo e come tale è l’organo formativo del pensiero così che ogni lingua interpreta o articola il mondo che cerca di esprimere.

Riferirmi a un “impoverimento linguistico” significa ritornare alla torre di Babele di Genesi 11 in cui al desiderio di costruire una grande città, una grande torre e una propria fama con un’unica lingua di espressione tra i parlanti conduce all’intervento correttivo di Dio che disperde le lingue, evitando un impoverimento, non soltanto linguistico, ma di interpretazione del mondo. Cosa preferire, un’unica visione del mondo imposta da un’unica lingua o una molteplice, differenziata e appunto articolata visione del mondo?

Eppure oggi Babele ritorna, in una società globalizzata che usa la monolingua della tecnica e della economia e che sempre più coincide con un tipo di inglese distante da quello di Shakespeare o dei grandi autori che l’hanno utilizzato per comunicare la propria concezione del mondo.

L’impoverimento linguistico è un fatto allarmante, un degradare la lingua in senso anche numerico con un vocabolario dal ridotto numero di vocaboli, annichilito (e prevalentemente volgare) che mette dinnanzi al fatto che se non ho parole per esprimermi non ho più neanche i concetti, i pensieri corrispondenti da poter comunicare tramite le parole della lingua storica che utilizzo quotidianamente e le decisioni e le azioni sono la conseguenza di assenza di pensieri articolati nel nostro cervello. Non riusciamo più a soggiornare nel tempo, perché è veloce e mutevole, sfuggente e inafferrabile e di conseguenza non abbiamo il tempo di soggiornare nelle parole, di scrutarne il senso profondo (quella etimologia di cui parlava Ermogene nel Cratilo) e si trasformano in un mero strumento neanche troppo di senso. Di fronte alla eclisse della parola il rischio è quello di smarrire la profondità della parola, che porta con sé l’incapacità di pensare alla lingua come a un “noi”, non solo l’io e il tu della comunicazione ma anche il noi di coloro che ci hanno preceduto e che la lingua l’hanno usata, raffinata e tramandata a noi “infanti”.

Nel contesto ecclesiale, mi fermo a leggere i documenti che precedono il Lezionario (ed. 2008) e nell’Ordinamento delle letture della Messa, Proemio, cap. 1. Principi generali per la celebrazione liturgica della Parola di Dio (n. 7), leggo «Nell’ascolto della parola di Dio si edifica e cresce la Chiesa». Guardando questa frase in negativo, meno si ascolta la Parola di Dio più la Chiesa regredisce, meno Parola ho nella mente meno avrò la capacità di esprimere o avere pensieri che la rispecchiano e che ispirano decisioni e azioni ecclesiali.

Il mio discorso sull’impoverimento linguistico è suscitato da questa frase dell’Ordinamento.  Personalmente vedo che la Parola è sempre sulla bocca di clero e fedeli, la sua importanza spesso è sottolineata da scelte rituali, sovente piuttosto discutibili anche dal punto di vista teologico ma sorvoliamo, è approfondita dai fedeli anche grazie a corsi biblici parrocchiali; il parlato del noi-Chiesa però sembra appiattirsi su un io-tu, la Parola sembra svilita a mero strumento di comunicazione, linguaggio comune dei parlanti cristiani per cui si dice, si racconta quello che la Bibbia dice, ce lo ripetiamo in continuazione ma quanto poi questa Parola scritta diventi visione del mondo, interpretazione del mondo, concezione del mondo è difficile da osservare.

In questo si contempla il disfacimento della III domenica del tempo per annum, Domenica della Parola di Dio, dove la Rivelazione dovrebbe essere al centro non come “etichetta” che si può intercambiare ma come essenza stessa del linguaggio del fedele cristiano e della Chiesa come comunità radunata intorno a una parola viva e vivificante.

Non c’è nulla di nuovo in tutto questo. Nonostante la Parola sia sempre annunciata nella liturgia, una costante che segna una linea di continuità nella missione e nell’annuncio, uno storico della Chiesa potrebbe tranquillamente ricordare i lunghi periodi di “assenza” della Parola dal linguaggio dei cristiani o come ispirazione di decisioni e azioni ecclesiali. La reviviscenza della Parola e dell’attaccamento dei fedeli alla Bibbia può essere una chiave di lettura della storia della Chiesa, per esempio dal periodo sub-apostolico fino al IV secolo, le controversie della Riforma nel Cinquecento, il movimento biblico del XIX secolo e poi il fervore biblico suscitato dopo la Dei Verbum e le riforme del Concilio Vaticano II…

Ma il rischio dell’impoverimento linguistico che si rileva nella società globalizzata lo portano i cristiani sulla loro pelle dentro la chiese che frequentano. Se sotto l’egemonia di una monolingua professo la mia fede, l’eclisse della parola e il rapporto malato con la parola che vive la società contemporanea è affare anche del cattolicesimo e si estende causando un’eclisse della Parola nella vita e nel pensiero dei fedeli.

In questo, la liturgia veramente sembra un baluardo della Parola perché le celebrazioni liturgiche, l’eucarestia in particolare, sono il luogo dell’annuncio ininterrotto e per secoli sono state l’unico contesto di contatto con la Parola, anche se non dobbiamo dimenticare l’ostacolo dato proprio da una lingua, il  latino, pervicacemente mantenuto in modo massiccio e quasi esclusivo fino al XX secolo, lingua storica che è stato il veicolo di una visione del mondo – e la sua “estinzione” anche dal mondo ecclesiastico porta con sé l’estinzione di una visione del mondo – a lungo incompreso da un popolo di fedeli prevalentemente analfabeti o comunque non di lingua madre latina…

Ricordando Bernardo di Chiaravalle, ciò che si annuncia nell’azione liturgica «non è una parola scritta e muta, ma Parola incarnata e viva» (Omelia super Missus est, 4, 11), ritorno alla metafora iniziale, e se la Chiesa è un giardino da curare, si sta attenti a pensieri e parole, che siano ispirati dalla Parola e abbiano conseguenze in decisioni e azioni che corrispondono alla Rivelazione? Ascoltando le pietose omelie di cui sopra, leggendo i documenti ufficiali di Papi, Sinodi e quant’altro, la Parola di Dio, secondo la nostra percezione, sembra appiattita con il rischio appunto di far degradare, regredire anziché di far crescere ed edificare.

Allora il tempo di Natale evocato dal titolo citando Gv 1,14, che segna paradigmaticamente la celebrazione del mistero della incarnazione, più che momento di buoni sentimenti della società consumista può essere il tempo dell’esame di coscienza sulla direzione che stiamo prendendo? Può essere il tempo in cui l’interiorità della parola, la profondità della parola, possa ancora prendere in modo decisivo e autentico la forma e il contenuto della Parola?

Buon Natale.

 



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